Tuesday, August 06, 2013

La mia InArch



Ricordo i sassi di Palazzo Taverna e il rumore dell'acqua della fontana. Pensate parcheggiavo dentro la corte la mia lambretta 50 attorno al '75.
Si saliva lo scalone e si apriva la porta. E c'era sempre Nicola De Risi, gentile, che tu ragazzo non capivi bene che ruolo avesse ma era rassicurante e protettivo e soprattutto amichevole. All'InArch vedevi tanti e tanti "grandi": brillanti, intelligenti. Ricordo la stagione di Nino Dardi, che era l'intelligenza e la brillantezza (e credo il fascino) impersonificata e che spaziava dall'arte all'architettura e che credo la dirigesse per un poco, e poi ricordo tanti altri. Ricordo il fermo e duro sir Denys Lasdun, ricordo tante e tante serate con gli italiani, con il barbuto Tafuri (non è vero che sono antitafuriano, anzi il mio lavoro senza l'enzima Tafuri non sarebbe per nulla quello che è -1-). Ricordo Argan e se mi sforzo anche molti altri. Si arrivava alle 21, cenati, e ci si sedeva, si fumava la pipa e si capiva che c'era un mondo più ricco di quello che frequentavamo a scuola. Dopo un poco imparai che bisognava soprattutto andare a sentire "le persone di cui non si sapeva nulla" Io di Soleri nel 1977 non sapevo nulla, ma quella conferenza di Soleri all'inArch, che roba!. Ho sempre pensato da allora che nomea omen (si è vero sono un poco partigiano) e ho sempre associato Soleri al sole, a quel sole dell'Arizona che lui sembrava catturare nelle sue architetture. Mio Dio, che scoperta. La più emozionante che io ricordi fu la conferenza di Ralph Erskine. Mai ho visto un uomo-architetto come Erskine. Dopo cinque minuti di traduzione simultanea, con classe e gentilezza indimenticabile, la bloccò e decise che l'avrebbe fatta lui, in italiano. Con dieci parole forse del suo italiano. Ma ci passò tutto quello che era importante. La passione della vita, del vivere,  delle persone; il fatto che l'architettura doveva essere felice, doveva incorporare la diversità, la gioia. Una lezione indimenticabile. 

Si può immaginare allora con quale trepidazione, pochi mesi dopo la laurea, in una occasione che credo riguardasse le "zone O" curata da Carlo Melograni con Piero Ostilio Rossi fummo invitati ad esporre! Luigi e me freschi di laurea potevamo far vedere il nostro progetto alla InArch!. Lo facemmo credo maniacalmente, ma non ricordo altro, null'altro. Alcuni anni dopo Zevi ordinò una mostra che si chiamava "La città Vuota" (2). O meglio invitò una serie di architetti in qualche modo a lui vicini, e me. Io di quel gruppo ero l'ala rigorista. Lontano dalla ricerca più vicina all'arte o  al "Linguaggio Moderno delle invarianti". Niente scomposizione quadrimensionale o elenco, anzi un pervicace, quasi feroce attaccamento ai temi pragmatici. Con mia moglie Donatella presentammo un progetto fatto a Carnegie-Mellon in cui avevamo lavorato tenacemente per mesi  "Una nuova casa americana" (perdendo il concorso, ma facendoci un libro) e montammo il tutto rigorosamente (3). Eravamo un poco dei pesci fuor d'acqua. Ma ricordo ancora il bel viso espressivo e radioso di Diambra Gatti, e i suoi begli occhi azzurri che disse a mia moglie che era sua stata sua allieva "Ma che bello, che giusto! questo progetto". La conobbi allora Diambra e ci siamo voluti veramente bene, e le voglio bene anche adesso dopo tanti anni che ormai non c'è più.
Nel 1989 ci fu la mia prima entré ufficiale. Ero un dottorando di ricerca, che però già al suo secondo anno di dottorato aveva pubblicato un libro nella serie stessa del Dipartimento. Una cosa incredibile e prestigiosissima, per un giovane. Era un libro maniacale su Louis Sauer, mio maestro americano e grandissimo progettista di Case basse ad alta densità nella città costruita. Organizzai una sua conferenza proprio all'inArch che era diretta allora da quella bella persona che è Franco Zagari. La conferenza fu organizzata alle 20 e durò sino alle 22 e rotte. In sala alle 21 e 30 circa arrivo il grandissimo Bruno Zevi che assistettè in piedi insieme ad un emergente architetto, polacco. Era Daniel Libeskind. Finita la nostra ci fu la presentazione di Zevi e di Daniel Libeskind. Pensate un poco. Io dovetti andare via perché ci trasferimmo tutti da me per celebrare quella di Louis che era venuto allposta dall’America. Ancora me ne dolgo, ma non potevo fare altrimenti o forse si. Errori di ragazzi.

Nel 90 o 91, quando da un poco collaboravo assiduamente a "Costruire" di Leonardo Fiori, che sempre ho stimato e sempre mi ha valorizzato in tutti i modi che poteva, scrissi un pezzo sull'InArch. Ma ero giovane e stavo sul concreto, mica mi potevo permettere questi "ricordi". Ma qualche cenno credo ci fosse, di quel bel clima. Negli anni successivi, ormai eravamo negli anni Novanta, partecipavo spesso. Capivo che sempre era il diverso da seguire. Ricordo una strana pomeridiana organizzata da De Masi che ne era diventato il presidente sulla medicina! Imparai moltissimo e capii molte cose sui "sistemi" che quà e là utilizzavo anche in contesto architettonico. Forse avrei scordato la serata infuocata su Bilbao, di cui ho ripreso il ricordo da Luigi. Una volta De Risi mi propose o io proposi a lui (?) una presentazione del mio Terragni ed Eisenman. De Risi volle una cosa meno saggiocentrica (tipo.. nuovi orizzonti della critica) e invitò renato Rizzi che aveva scritto un libro su EIsenman. Fu alla Scala santa. Organizzammo la serata con voci anche discordanti. Fu bella ed intensa a quanto ricordo. L'accoppiata Terragni-Eisenman era una piccola bomba in cui l'establishment architettonico cercava di rispondere, ma c'era poco da fare per la verità: erano così nuovi, cosiìinsopportabilemte belli e perfetti. Mi si poteva certo mettere nell'angolo universitario, ma nel frattempo mi inventavo una bomba atomica come "La rivoluzione Informatica in Architettura". E ricordo quando presentai Greg Lynn, non molta gente in sala, ma ricordo gli amici di "Gomorra" Antonino terranova e Paolo Desideri, che sapevano che bisognava andare dove non si conosce troppo.
Il mio salto ulteriore fu quando su invito di nuovo di Franco Zagari, tenni la mia prima "solo" conferenza: "Sette parole per domani" (4).  Vi rifluivano mixate e strettamente interconnesse una serie di esperienze stratificate. Dal mio insegnamento in situazioni estreme o per la richezza (come l'ETH di Zurigo) o per la difficoltà e la presunta marginalità come quella del Mozambico, i miei forti interessi per la storia, per la anlosi critica anche con i nuovi mezzi informatici ma anche le ragioni profonde dell'imprinting da cercare e rivendicare e l'idea che avevo assorbito da Erskine. "Architettura terapeutica" l'avevo chiamata ed era l'ultima parola per il futuro. In fondo se oggi ho cominciato questa collana "The Proactive revoltuion in Architecture" quello era il filo.
Si era a meta del 99 ed era il mio punto di maggiore vicinanza e di più fitta corssispondenza con Zevi e le mie lettere di allora e le sue erano così dense, così belle: un giorno chissà, chi vorrà le leggerà.

Ebbene in questo clima alla fine dell'anno mi arriva una telefonata. Zevi voleva vedermi perché aveva deciso di dare a Massimo Locci, a Luigi e a me la direzione scientifica di un grande nuovo convegno dell'InArch. Eravamo, credo che qualcuno ci chiamò così " i tre saggi". Andammo allo studio e discutemmo sul da farsi.

Si era a due anni da Modena, Zevi stava benissimo e voleva rilanciare con forza l'idea che l'InArch doveva essere un cuneo per incidere concretamente  nella società. Lavorammo con forza al programma noi tre a casa di Massimo e mettemmo su un programma con ospiti internazionali che raccontavano di prima mano le esperienze di rinnovamento delle loro città. Anche se con Luigi eravamo in freddo grazie a Massimo lavorammo benissimo e di comune accordo e mettemmo su un bel parterre sfruttando le conoscenze dirette e i contatti.
Zevi improvvisamente morì  l'11 gennaio del duemila. La conferenza  fu alla fine del mese. Fu vibrante e credo il punto più alto raggiunto da quando io frequentavo l'InArch di cui presidente era l'industriale, molto noto e potente Guzzini.
Nei mesi successivi dopo il convegno avevo mille angosce e preoccupazioni legate all'Universale di Architettura, stavo male anche fisicamente, e non seguì quello che bolliva in pentola. A metà giugno c'era l'elezione delle nuove cariche direttive e mi telefona un amico che mi dice: "Nino vieni, ti stanno tagliando fuori!." Andai a via di Ripetta e scoprii il sistema italiano della lista. Cioè si erano predeterminate tutte le cariche in una lista chiusa di undici nomi che era data a tutti i soci. Io non ero in lista (!) , ma siccome le persone mi videro, ottenni un alto numero di voti, ma ciascuno aveva tolto un nome diverso dalla lista e in questi casi è praticamente impossibile essere eletti: Voilà l'invenzione "democratica" della lista!  Vero, non me ne ero interessato per nulla, ma come dire perché estromettermi?

Poi capii che  la mia estromissione era strategica, soprattutto perché l'InArch, scomparso Zevi,  stava per aprire un fronte di corsi a pagamento che francamente mi avrebbe visto, anche in quanto professore universitario di ruolo che quelle corse insegnava e condivideva pubblicamente, contrario. Alla nascita del primo a pagamento protestai in dieci righe sul mio sito, che ebbero eco.
Non mi sono mai più iscritto all'InArch anche se sempre su invito di Franco Zagari e poi di Livio Sacchi vi tenni ogni quattro anni un'altra conferenza (V). Vi presentai le prime riviste web in Italia nel 2001 (5), e feci anche io alcune cose con l'InArch Sicilia. Alcuni amici che stimo, in particolare Massimo Pica Ciamarra e anche Massimo Locci, ogni tanto me ne riparlano ma non me la sono più sentita. Ogni tanto ci vado, ogni tanto parlo, quando mi fu chiesto entrai nel Comitato scientifico, necessario evidentemente per accreditare l'istituzione, ma dopo la prima riunione non siamo stati più chiamati. Concordo con il giudizio di Luigi: siamo troppo affezionati per sentirci lontani, la osserviamo con rispetto, ma soprattutto con nostalgia. 

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