Ideata "La rivoluzione informatica in architettura" nel dicembre del 1996, scelsi successivamente i primi cinque volumi. Iniziai con Gerhard Schmitt, guru dell'informatica, cattedratico di Caad a Zurigo e mio antico collega a Carnegie-Mellon, poi Maia Engeli del gruppo di docenti della cattedra di Schmitt, poi "Terragni Virtuale" di Galli e Mühlhoff che si basava sulla tesi di laurea che avevo guidato nel mio periodo di insegnamento a Zurigo, poi "Eisenman digitale". Il giovane Luca Galofaro mi aveva parlato del suo periodo a studio Eisenman e gli proposi questo saggio-racconto dal punto di vista del rapporto tra Eisenman e l'informatica. Riflettei a lungo sul quinto titolo. Zevi mi aveva in più ripreso sottolineato che non si poteva dirigere una collana e scrivervi allo stesso tempo, ma vi era lo stesso bisogno di un libro "quadro" che facesse capire perché con l'informatica cambiava il contesto stesso della ricerca architettonica.
Avevo da poco fatto il punto a proposito. Nel febbraio del 1997 Paola Coppola Pignatelli mi aveva invitato a fare una relazione ad un suo convegno e sostenni che non ci si doveva avvicinare all'informatica per via "tecnica" o "manualistica", come era allora d'abitudine, ma per una via concettuale, via un "pensiero" critico, via una sfida estetica. Sembra ovvio, ma fu un punto importante. La mia relazione (era ancora con le diapositive) illustrava soprattutto alcune ricerche dell'arte concettuale per collegarle ad alcuni principi dell'informatica.. per esempio la discontinuità, il salto, la metafora. Non la faccio lunga.
Alla fine, dopo averci a lungo pensato mi venne l'idea: "Sì, Luigi questo lo può fare".
Ne avevo sempre ammirato anche l'ampiezza della cultura e sapevo della sue sterminate e appassionate letture filosofiche (lo ricordo giovanissimo che digeriva anche astrusi volumi di estetica che si producevano non lontano dalla nostra cantina-studio). Ma questa competenza aveva avuto poche ricadute pratiche (forse una o due recensioni) e per me era un autentico "spreco". Presi la decisione e gli dissi qualcosa del tipo: "Luigi fa tu questo libro sull'informatica e lo spazio, nella mia nuova collana. Ma deve essere un libro che vede il discorso in chiave di riflessione 'alta', di riflessione profonda. E poi devi assolutamente far comprendere non solo il mondo della filosofia, ma anche quello della ricerca artistica."
Alla fine di febbraio del 1997 partii per una lunga missione di insegnamento all'estero, in Mozambico dove per farmi capire avevo inventato un insegnamento per parole chiave, che in realtà una volte spiegate richiamavano una profondità di pensiero, di ragioni e di modalità operative. Anche il mio libro su Gehry era impostato cosí: Assemblare.. Spaziare.. Fondere..
Prima di partire consegnai a Luigi una pila di libri della storia dell'arte Moderna di Russoli (bellissimi), perché volevo stimolarlo e indirizzarlo il più possibile. Per me era una grossa scommessa: Luigi non aveva, forse mai, menzionato prima nei suoi scritti la parola Informatica o Caad, non aveva partecipato né conosceva tutto quel filone, quelle ricerche pionieristiche dei convegni dell'insegnamento con il Computer, né tanto meno aveva insegnato Caad. Ma siccome io non volevo un libro tecnicistico, ma un libro quadro, Luigi era secondo me la persona migliore che io conoscessi e di cui avevo stima per fare il libro. Inoltre si compiva con la proposta un mio progetto personale e amicale, quello di tirarlo fuori dalle secche della manualistica, del professionismo e della politica per farlo approdare compiutamente nel campo in cui la sua intelligenza poteva brillare, quello della scrittura architettonica. Naturalmente avevo anche un forte interesse personale, fare il libro migliore possibile per lanciare al menglio la mia "sezione" come si chiamava in quella fase e rafforzare la universale di Architettura con autori di qualità.
Vidi il libro in prima stesura in autunno e mi piacque (!). Luigi aveva sviluppato quello che mi premeva come direttore di collana e anche molte cose che ci si passano l'uno con l'altro senza neanche dirle. Aveva delle parti molto belle ... da Wittgenstein a Duchamp che poi diventò una sua specie di mania.
Condividevo le tre parole fondamentali che ne segnavano la struttura e che erano sviluppate con grande ricchezza e brillantezza. Il libro funzionava, ma secondo me aveva bisogno di qualcosa di più vicino anche al dibattito architettonico e soprattutto aveva bisogno di un grande personaggio che esemplificasse la ricerca di una nuova architettura via l'informatica. Era Toyo Ito secondo me la chiave di volta, e gli diedi il numero di "El Croquis". Luigi, molto colto e informato, non lo conosceva (ed è preciso anche su questo piccolo dettaglio) e ci si buttò al solito a capofitto: lo capi a fondo, comprò tutto il disponibile, e lo inserì alla fine del capitolo introduttivo. Il primo capitolo del libro era così denso e pieno di frizzanti riferimenti. Non ero d'accordo su tutto, in particolare il Centro Pompidou per me è l'ultimo edificio del mondo industriale piuttosto che il primo dell'informatica, ma non faceva nulla, il capitolo andava bene e rendeva secondo me il libro migliore.
Lavorò con attenzione agli apparati. Innanzitutto al "Per Approfondire" che avevo inventato quando era senza biblioteca in Africa, e già utilizzato nei miei libri precedenti per dare profondità anche bibliografica senza appesantire il testo e poi a un sistema di impaginazione delle immagini come una sorta di tavola a tema. Questi pagine sono stupende nel libro, riguardarle per credere. Luigi cercò il meglio e addirittura tagliò i libri e le riviste per dare all'editore le migliori riproduzioni possibili e venne un sabato mattina di dicembredel 1997 nell'aula grande del mio dipartimento a Valle Giulia e io li fotografai in diapositiva in due copie. Avevamo entrambi più di quaranta anni, ma ne avevamo fatti di lavori insieme e non ci preoccupava certo questo.
Rilessi ancora tutto, ma non funzionava perfettamente. Esisteva un pubblico di specialisti di informatica, i miei colleghi architetti come Peter Anders, Greg Lynn, Lars Spuybroek eccetera che non avrebbero capito forse come questo libro di arte e filosofia potesse dire qualcosa di importante nell'informatica. Bisognava centrarlo di più (almeno dal mio punto di vista). Ora se Luigi dice che questo libro è il suo più bello, "Hyperachitettura" è non solo la prima ma certamente la mia più bella Prefazione (ne ho scritte una quarantina..), soprattutto centra alcune questioni chiave. Misi questo testo, come Postfazione (4) e il testo divenne anche, come apparirà via via sempre più chiaro, il programma stesso della collana. Volevo dire e far capire come l'Informatica fosse qualcosa di completamente nuovo, come l'interattività ne fosse l'elemento saliente e soprattutto che questa interattività dal campo informatico si doveva trasferire in una indispensabile caratteristica della nuova architettura. Per dire tutto questo, inventai la parola "HyperArchitettura" e il libro stesso si chiamò, a questo punto, come la postfazione, HyperArchitettura (e quello che era il titolo originale "Spazi dell'età dell'elettronica", diventò il sotto titolo).
Tutto quello che ha scritto Luigi Prestinenza Puglisi su questo libro nella sua autobiografia è bello, ma immagino che per qualche lontano fan del libro e della collana che mi scriveva alla email con cui firmavo le mie prefazioni, una visione stereoscopica sia migliore di una monoculare, o no? Alla fine i libri vanno comunque per la loro strada e incrociano autonomamente le idee e le vite dei lettori.
Alla fine ricordo una foto: feci chiamare Luigi dal portiere al palazzo dell'Eur e gli regalai, credo, il libro che avevo appena comprato in edicola. Ci fu fatta una foto. L'ho perso quello scatto.
1.
"L'idea della collana mi è venuta nel novembre del 1996. A quel tempo era stata appena pubblicata la mia monografia Peter Eisenman. Trivellazioni nel futuro e stavo completando quella su Frank Gehry Architetture Residuali. I libri erano collocati all'interno della collana di tascabili Universale di Architettura (stampata dalla Testo&Immagine di Torino) e diretta da Bruno Zevi. Conoscevo Zevi dal 1976, ero stato suo allievo per molti anni, avevo già pubblicato libri e articoli nelle sue collane e riviste e intrattenevo con lui una fitta corrispondenza. Insomma era il mio maestro. I tascabili dell’Universale di Architettura, uscivano mensilmente anche in edicola, erano molto ben fatti tecnicamente con buona carta e foto a colori, avevano un prezzo contenuto e stavano scuotendo il sonnecchioso dibattito culturale italiano. Erano il frutto di una sua lunga e appassionata battaglia verso la comunicazione.
In questa fase venne da me l'editore della Testo&Immagne (l'ing. Vittorio Viggiano) per offrirmi maggiori responsabilità editoriali rispetto al mio abituale ruolo di autore (anche se di successo).
Io non volevo fare alcunché che mi mettesse in conflitto con il mio maestro Bruno Zevi. Decisi allora di proporre un nuovo fronte di libri che trattassero il rapporto tra informatica e architettura con l’approccio "Strutturale, Culturale e Formale" che ho descritto. Insomma non libri tecnici ma libri che aprissero un fronte di dibattito intellettuale sul rapporto tra informatica e architettura." Continua a leggere qui: "Talking about the Revolution", Intervista a Antonino Saggio di Fredy Massad and Alicia Guerrero Yeste "Il Progetto" #9, gennaio 2001.
2. "AUTOBIOGRAFIA A-SCIENTIFICA (35): il libro migliore che abbia scritto è HyperArchitettura uscito nel 1998 quando avevo quarantadue anni. Me lo aveva commissionato Nino per iniziare la collana della Rivoluzione informatica. Mi trovavo in un momento difficile. L’anno prima il medico curante di mia zia Letizia mi aveva telefonato per chiedermi di andare a trovarlo. Mi comunicò , senza giri di parole, che a zia rimanevano un paio di mesi di vita. Così fu: morì di lì a poco in una clinica chiedendo in siciliano, lei che aveva una magnifica padronanza della lingua italiana, a sua madre di portarle dell’acqua. Era febbraio 1997.
L’idea del libro mi venne a fine agosto ( dell'anno successivo o di quell'anno?) mentre mi trovavo in aereo, un posto che favorisce i pensieri, forse per la pressurizzazione della cabina. Dovevo scrivere un testo giocato su tre piani: uno accessibile, uno più approfondito e un terzo destinato a chi ne avesse le chiavi di lettura e che andasse dritto alle questioni per me più importanti. La struttura era semplice. Tre parole: proiezione, mutazione, simulazione. Per fortuna il viaggio era lungo. Mi diede modo di riempire di appunti alcuni menù mentre mia moglie mi guardava con la faccia di chi sa che ogni tanto queste cose – strabuzzo gli occhi, mi astraggo e scrivo compulsivamente - mi prendono ma non sono gravi.
L’idea me la aveva suggerita Baudrillard ma prima di quel viaggio non ci avevo fatto caso: tutto è scambio, scambiamo le parole con le cose, e le cose tra loro, e le parole tra loro in un processo circolare e senza fine. Affinché lo scambio avvenga, gli oggetti diventano uno metafora dell’altro e lo strumento privilegiato della metafora è la proiezione: quella di Wittgenstein del Tractatus, quella delirante e multidimensionale (2D-3D-4D) di Duchamp del grande vetro, quella degli archetipi di Jung, quella delle tavole di verità della logica simbolica che si proiettano su circuiti elettrici dei computer. Sino a quella della macchina che ti fa la TAC in clinica e dei PC che ricorrono all’immagine della finestra o delle cartelle. Il mondo, per un attimo, mi appariva chiaro ( e fui felice qualche anno dopo quando vidi che a una conclusione simile era arrivato Paul Feyerabend, nel suo libro postumo sulla conquista dell’abondanza). E mi appariva ugualmente chiaro che il passo dalla proiezione alla mutazione era immediato e dalla mutazione alla simulazione non maggiore. Beh, adesso è troppo lungo da spiegare. La faccio breve: avevo trovato come nell’età dell’elettronica l’architettura potesse essere spazializzazione di pensiero e come oltretutto, ciò ci desse le chiavi per meglio comprendere il passato dell’architettura e del pensiero.
Tornato a Roma misi a posto la bozza e la mandai a Nino. Il quale credo sia rimasto un po’ male. Troppo astratta. Parlavo di cose che apparivano in fondo laterali all’architettura: Jung, Wittgenstein, Duchamp, Borges, l’arte concettuale. Mi chiese con delicatezza di allungare il teso aggiungendo un capitolo di attualità e mi suggerì di andarmi a vedere Toyo Ito. Cosa che feci con piacere anche se sapevo che in questo modo il terzo livello del testo sarebbe diventato ancora più difficile da percepire. Feci iniziare l’età dell’elettronica con il centro Pompidou. Aggiunsi, infine, una dedica a Antonio Prestinenza, Nellina Prestinenza Puglisi e Letizia Puglisi, ma anche questa con il suo gioco di nomi e di connotazioni esistenziali è incomprensibile a chi non mi conosce. E, infine, cercai di accennare alla mia concezione del tempo – il tempo che lascia rovine e la volontà di non farci travolgere- con una citazione di Kettering, che però mi rendo conto, ha più fuorviato che indirizzato: “il mio interesse è nel futuro perché è lì che passerò il resto della mia vita”. Parlavo della morte che ha incrociato continuamente la mia vita, ma qualcuno lo ha voluto vedere come un ennesimo segno di avanguardismo. Non capendo che il mito fondante della modernità e della nostra cultura occidentale è il viaggio di Ulisse. Nino, ha aggiunto una postfazione intelligente ma che ha contribuito ancora di più a spostare l’attenzione del lettore sulla componente essoterica del libro, chiudendolo a quella esoterica.
Poco male. HyperArchitettura è andato benissimo lo stesso, ma devo dire ancora, per quello che io veramente avrei desiderato, non è stato compreso da alcuno. Segno direbbe Croce che non era sufficientemente chiaro o che ha poco senso scrivere su più livelli di lettura (continua)." Luigi Prestinenza Puglisi, pubblicato sul proprio pagine pubbliche di FaceBook il giorno 29 luglio 2013.
3. Luigi Prestinenza Puglisi, HyperArchitettura. Spazi dell'età dell'elettronica, (post fazione "Hyperarchitettura" di Antonino Saggio. Collana La rivoluzione Informatica in Architettura, sezione a cura di AS nella Universale di Architetturua di Bruno Zevi Testo&Immagine, Torino 1998 e edizione Inglese in "The IT Revolution in Architecture" - series edited by Antonino Saggio editore Birkhauser, Basilea 1999 e successivamente in Cinese e Coreano) vedi .
4. Nelle versione informatica pubblicata alcuni anni dopo nella rubrica Coffee break di "Arch'it"dell'amico Marco Brizzi inserii forse sbagliando alcune architetture che si realizzarono negli anni successivi. Quella Postfazione in realtà "sognava" quelle realizzazioni, le immaginava, le desiderava prima cheesistessero. In particolare Blur di Diller&Scofidio.
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