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Nella seconda settimana del mese di settembre, la città di Venezia è stata caratterizzata da due fatti importanti che hanno interessato il mondo dell’architettura. Il primo ha riguardato l’inaugurazione del ponte pedonale che collega Piazzale Roma alla stazione ferroviaria. La realizzazione ha generato l’entusiasmo dei cittadini perché la nuova architettura, oltre ad essere molto bella, ha un naturale potere energizzante, dà fiducia. Certo nella città di Morte a Venezia non bisogna esagerare con segni di entusiasmo giovanile, ma neanche è possibile continuare a gettare in laguna una serie di opere geniali come è successo in questo dopoguerra (Le Corbusier, Kahn, Wright); per non citare la deprimente e più recente vicenda del progetto di Eric Miralles per l’Istituto di Architettura abbandonato dallo stesso committente. Ora, dove questi architetti hanno fallito, Santiago Calatrava ha vinto. Il ponte c’è: interessa, funziona, crea dibattito, oltre ad essere, come dicevamo, riuscito esteticamente. Ma, la cosa veramente particolare è che l’opinione pubblica che si interessa a questo episodio della propria città non ne ritrovi alcun eco alla Biennale che contemporaneamente si è aperta ai Giardini.
Si tratta infatti di una mostra che del Ponte a Piazzale Roma vuole essere, programmaticamente, l’esatto contrario. E che questa non sia una opinione è confermato dal fatto che Santiago Calatrava alla Biennale non è stato neppure invitato. Ecco allora che i due importanti avvenimenti architettonici del settembre veneziano vivono talmente distanti e separati che sembrano riguardare due sfere completamente distinte di operatività. Cosa che ovviamente non è e non dovrebbe essere. Out There. Architecture Beyond Building (il titolo della XI Biennale) intende sottolineare che l’architettura è una disciplina intellettuale, appartiene al mondo dell’elaborazione culturale. L’architettura è soltanto “episodicamente” costruzione e opera sociale, il suo orizzonte è quello delle idee. Voi penserete a questo punto che chi scrive sia molto critico su questa Biennale e che si unisca al coro, numerosissimo per altro, di denigratori. Non è affatto così, e veniamo alle ragioni per cui questa Biennale è comunque da acquisire, pur nell’astrazione programmatica di cui dicevamo, positivamente. Innanzitutto il rischio che le passate edizioni avevano corso era quello della lottizzazione (a ciascun curatore o sottocuratore un pezzo distinto spesso in contraddizione l’uno con l’altro) assecondando la trasformazione di un episodio di alta cultura in baraccone politico. Il rischio nella precedente Biennale in particolare era stato ben presente e ne avevamo scritto su queste pagine («L’architetto italiano» n. 16).
Ora il ritorno alla Biennale di Paolo Baratta come presidente ha evitato questa pericolosa deriva. Baratta ha affidato (come fece con Fuksas e con meno successo il biennio successivo con Sudic) tutta la macchina espositiva a un solo curatore, senza concedere spazio a sottomostre autonome. Aaron Betsky a questo punto ha tenuto strettamente in pugno l’intera mostra sia nelle parti da lui direttamente firmate, sia in quelle affidate a collaboratori che l’hanno supportato organizzativamente lasciando ovviamente a lui le scelte decisive. Nel complesso così l’XI Biennale segna un ritorno a una impostazione fortemente curatoriale, e ciò è positivo. Vi è d’aggiungere che alcune sue parti sono molto buone. Cominciamo con dei suggerimenti. I premi della Biennale sono come troppo spesso i concorsi in Italia, una pratica laboriosa che serve solo a santificare con un giudizio “ufficiale” quello che è ovvio a priori, considerato la rete di amicizia tra curatore, giudici e premiati. Vista la fraterna relazione pluridecennale tra il critico J. Kipnis e G. Lynn, a chi poteva andare il premio come miglior allestimento in Arsenale? Ingenuo lo sconcerto di chi ne cerca ragioni di sostanza. Visto che Betsky è legato sin da ragazzo a Gehry, a chi poteva andare il Leone alla carriera se non a Gehry? Si diano i premi invece con un sistema democratico: siamo nel 2008! Invece di fare stelline alle entrate o gli ennesimi concorsi on-line si usi l’information technology per il suo potere democratico contro questi sistemi di giurie feudali.
Forti dubbi crea anche la mostra Uneternal Rome. Ne ho scritto in altra sede («l’ARCA» settembre 2008) e non mi dilungo. Per Betsky Roma è associabile a qualunque altra città perché presenta fenomeni di sprawl urbano comuni ad altre metropoli. Essa infatti è dichiarata sin dal titolo uneternal. Ora questa tesi segna l’esatto contrario di quello che chi studia Roma sostiene da anni e cioè che Roma abbia caratteri assolutamente forti e originali e sia compito degli architetti contemporanei capirli e lavorarvi in maniera costruttiva. Gli architetti invitati oscillano tra le due posizioni e la mostra nel complesso colpisce come un caleidoscopio con scarso costrutto. Non coraggiosa abbastanza è la mostra Experimental Architecture. Una mostra che aveva senso per individuare le vere novità, non per accontentare alcuni architetti certamente molto bravi (Boeri, Ian+ Ma0, Mirti e altri) a cui non si poteva dare uno spazio importante (cioè una delle grandi installazioni all’Arsenale). Era meglio cercare veramente il nuovo in giro, cosa invece che è stato fatto veramente troppo poco. Decisamente buona in questa Biennale è invece la sezione all’Arsenale (la più importante e decisiva per altro) in cui 23 architetti hanno compiuto una vera installazione abitabile e completamente nuova, senza i patetici ricicli di scorse edizioni. Tra le 23 top installazioni vi sono Penezic & Rogina di cui ci siamo occupati in queste pagine (n. 16) e molte altre installazioni bellissime, secondo me, come quella di UN studio, di Coop Himmenb(l)au, di Frank Gehry, di Atelier Bow-Wow e altre ancora. Cerebrali e deludenti le star Diller & Scofidio e Fuksas questa volta, e veramente evanescente Philppe Rahm. Altri fatti importanti e in genere riusciti di questa Biennale riguardano la partecipazione molto qualificata e certamente ben coordinata da Betsky dei padiglioni nazionali (tra cui una mostra a cura di Per Olaf Fjeld su Sverre Fehn e una meravigliosa su Utzon ordinata dal Louisiana Museum of Art, una bella e come dire leonardesca su Scarpa nel Padiglione Venezia). Infine da segnalare la mostra grafica, pittorica e architettonica ad un tempo di Zaha Hadid che secondo me vale da sola il biglietto. Originalissimo e di grande successo il video (I. Bêka e L. Lemoine) dedicato alla casa di Koolhaas a Bordeaux, ma vista dal punto di vista della cameriera. Una risposta che inverte genialmente i termini della questione posta dal curatore. Architettura oltre l’edificio non perché si cerchi un’architettura più astratta, celebrale e intellettuale, ma al contrario per calarci in una dimensione più reale, più concreta, quasi iper-realistica. Un’architettura vista da chi guarda allo spazio con il proprio bagaglio di necessità. Ma non è questa proprio l’essenza di ogni sapere di spazio?
"L'arvhitetto Italiano" n. 28-29 Vai all'ultimo "ON&OFF" in PDF che, oltre a questo articoloj contiene: In principio era la terra sugli sviluppi innovativi della ceramica di Moccia, News di Ruotolo, Le regole del gioco di Munari di Bartolozzi, Territorio Infrastruttura Architettura; Una dinmensione integrata di Marotta, La memoria dei sensi Nuovi "cunti" per i borghi abbandonati di Angelini.
1 comment:
Leggendo l'ultimo "ON&OFF" non ho potuto resistere dal commentare ulteriormente la vicenda Veneziana.
Non aggiungo nulla di nuovo alla vicenda ma è deludente che la città viva da sempre forti contrasti con le architetture di qualsivoglia genere "moderne", e il rifiuto del ponte della costituzione ne è un esempio sciagurato(perfino palladio ebbe il suo bel da fare con i Veneziani!e della sede IUAV di Miralles e bene non parlare...)Ancora di + lo è pensando a quali relazioni avrebbe potuto creare un suo inserimento all'interno di uno dei contenitori della biennale,o un allestimento itinerante proprio sul ponte magari...
ignorare una architettura di questa portata la dice lunga sull'atteggiamento complessivo del nostro paese sulla questione "architettura contemporanea" (anche Modena adesso può vantare un suo diniego plateale a Gehry... e le città nella lista sono tante) il ponte parla da solo a sua difesa,ma è ridicolo che una rassegna come la biennale decida di ignorarlo e tutto sommato fa comprendere come sia vissuta la sua presenza in città.(sgradita!)
segnale davvero deludente.
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